Viaggio intorno alla felicità / 1

Viaggio intorno alla felicità / 1

ETICA

La felicità: sogno? Realtà? Illusione? Possesso? Potere? Fortuna? “Ma ho concluso che tutto è vanità, come inseguire il vento” (Qoelet)

Quando parliamo di felicità, sorgono subito parecchie domande che valgono per tutti: cristiani, credenti di altre religioni, atei, agnostici. Alla domanda più scontata “che cos’ è la felicità?” ne seguono altre sicuramente più profonde, del tipo: quando siamo davvero felici? La felicità “capita” o si “costruisce”? La felicità dura nel tempo? La felicità o l’infelicità dipendono da noi? Per essere felici bisogna: “fare” qualcosa, “avere” qualcosa” o “essere” in un certo modo? La felicità è possibile o impossibile? Nella vita è proprio vero che alcuni sono destinati ad essere felici ed altri no, come, ad esempio, tanti migranti e profughi che papa Francesco ci invita ad accogliere?

Nel corso del nostro viaggio intorno alla felicità cercheremo di dare delle risposte a queste domande, poggiandole su riflessioni e angolazioni diverse(etiche, filosofiche, psicologiche, religiose, teologiche, sociologiche), atteso che non pochi argomenti hanno affascinato l’uomo quanto la ricerca della felicità, e considerato che non c’è filosofia, ideologia o religione che non abbia fatto i conti con tale problematica.
Anzitutto partiamo dal termine felicità, che deriva dal latino “felicitas”, che traduce il greco “eudaimonia”. “Felicitas” richiama il concetto di “fertile”, “nutriente” e si collega, a differenza del sinonimo “beatus” che si riferisce alla felicità interiore, al concetto di sazietà, abbondanza, superamento della precarietà.
Nel nostro tempo sono in molti, ivi compresi i cristiani e i credenti in genere, ad asserire che la felicità non esiste: è semplicemente una evanescente illusione, che vola via nel momento in cui si ha l’impressione di averla in mano e di possederla. In pratica siamo di fronte a dei “neo-leopardiani” contemporanei, i quali vivono con la consapevolezza che la felicità è impossibile e quindi non serve neanche sperare di essere felici, ma basta vivere gli accadimenti con il maggior distacco possibile per evitare delusioni: “la felicità – scriveva Leopardi nello Zibaldone – è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura i viventi, soli capaci d’altronde di felicità… Quindi non sarete mai e non potete essere felici, né in questo mondo né in un altro”.
C’è poi un’altra prospettiva con cui oggi molti credono di vivere la felicità. E’ quella di coloro che legano la felicità a ciò che si possiede o si vorrebbe possedere, ossia denaro, beni, affetti, relazioni, amicizie, visibilità mediatica, voglia di mettersi in mostra, ricerca del potere, di cariche pubbliche, di cariche religiose, dimenticando però che queste cose non possono garantire una felicità stabile a causa della loro precarietà ed atteso che – come insegna il libro biblico del Qoelet – “in questa vita sembra tutto inutile!: “Mi sono detto: Ora voglio provare ogni genere di piacere e di soddisfazione. Ma tutto mi lasciava un senso di vuoto. Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. Allora ho cercato il piacere nel bere, ma senza perdere il controllo. Mi sono dato alla pazza gioia. Volevo vedere se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita….Ho fatto venire nel mio palazzo cantanti e ballerine: per i miei piaceri, tante belle donne…Ho soddisfatto ogni mio desiderio; non ho rinunziato a nessuno piacere. Ho tentato di fare un bilancio di tutte le opere che avevo fatte e della fatica che mi erano costate. Ma ho concluso che tutto è vanità, come inseguire il vento. In questa vita sembra tutto inutile”.(Qoèlet 2,1-3.8.10-11).
Nel panorama culturale contemporaneo si insinua ancora un’altra prospettiva di lettura della felicità, quella che ritiene che essa non si possa perseguire e costruire. Ecco, allora, che coloro i quali si muovono in questa direzione finiscono per introdurre nella società e nel mondo l’idea della fortuna: la felicità è questione di fortuna – si afferma – , è tutta frutto di casualità degli eventi, si può solo sperare ma non certo costruire perché dipende dalla combinazione di accadimenti che non si possono controllare.
C’è infine un quarto approccio alla questione della felicità, quello di chi sostiene che essa non appartiene a questo mondo, percepito solo come una “valle di lacrime”; di conseguenza ciò che nella vita terrena ci aspetta è solo la sofferenza mentre nell’aldilà , dopo che Dio giudica l’uomo, si potrà sperare in una felicità intesa come “premio eterno”.
Una domanda mi sembra centrale, a questo punto, : ma un cristiano alla sequela di Gesù in quale prospettiva si deve collocare? Se Gesù offre come criterio del discepolato la croce (“Se qualcuno vuol seguirmi, prenda la sua croce e mi segua”), il cristiano può sperare di raggiungere la felicità? E dove? Come? Quando? La croce, che richiama dolore e sofferenza, sembrerebbe in contrasto con la felicità, eppure è quella che il Maestro chiede ai suoi discepoli.
E’ opportuno, allora, per capire cosa è felicità e come si può essere felici, entrare in due prospettive ulteriori, rispetto a quelle precedentemente evidenziate, ossia la prospettiva etico-filosofica e quella teologico-religiosa.
Ci soffermiamo sulla prima, mentre rimandiamo al prossimo numero la seconda.
Non c’è dubbio che le dottrine morali dell’antichità classica ci hanno tramandato degli insegnamenti sulla felicità, che hanno le loro parti di verità ma che guardano spesso solo elementi parziali. Sostanzialmente la felicità è stata presentata come una condizione più o meno stabile di soddisfazione totale. Se per i filosofi epicurei l’uomo poteva ritenersi felice solo grazie ad una razionale e controllata fruizione del piacere, per altri, come i filosofi dello stoicismo, come Socrate, Platone ed Aristotele, la felicità umana è stata fatta dipendere dalla stretta coincidenza con la virtù. In pratica, solo chi è virtuoso è veramente felice, solo chi persegue il bene può raggiungere lo stato di felicità. Ma nella esistenza mondana una sintesi del genere è possibile? Secondo il grande filosofo Kant, non è possibile, tant’è che egli rifiuta il principio di legare la moralità alla felicità, ritenendolo non adatto ad orientare la vita morale dell’uomo. E’ stato poi il pensiero anglosassone , da Hume in poi, a far emergere altre riflessioni sulla felicità, sostanzialmente in due direzioni: la prima verso una idea che considera la felicità in senso relativo alle concrete situazioni dell’esistenza e quindi ragionevolmente perseguibile; la seconda verso una riflessione sulla felicità non più dell’uomo singolo ma degli “insiemi sociali”, tant’è che Russel ritiene che fino a quando l’uomo resta chiuso in se stesso, nelle proprie passioni, ed io aggiungo nel proprio egoismo, nella propria incapacità di accogliere sia chi ci sta vicino sia chi giunge da lontano scappando dalla guerra e dalla povertà, non sarà possibile per lui raggiungere la felicità. E qui, naturalmente, spuntano altre domande: ma perché noi dovremmo preoccuparci di rendere felici gli altri? Forse perché così facendo, conseguiamo anche la nostra? Forse perché così facendo felici gli altri ci assicuriamo il paradiso? E poi- è normale sentire dire – la felicità degli altri non si raggiunge talora mediante la rinuncia alla nostra, ossia con il sacrificio? E allora ne vale la pena? Di queste due felicità, la nostra e quella degli altri, ci occuperemo nel prossimo numero!