Viaggio intorno alla felicità / 2

Viaggio intorno alla felicità / 2

ETICA

La felicità non è possesso, ma “camminare insieme” sulla strada dell’alterità

Dove cerchiamo la felicità? Tutti, credenti e non credenti, tendiamo ad essere felici, anche se solo per un attimo. In questa seconda parte del mio viaggio intorno alla felicità, vorrei occuparmi sia della felicità personale che di quella altrui, atteso che “la felicità – come afferma Frances Tan – è come una farfalla. Più cerchi di afferrarla, più ti scapperà. Ma se dedichi la tua attenzione ad altro, lei verrà e delicatamente si poserà sulla tua spalla”.

Partendo dalle parole di S. Agostino, il quale affermava “Cercando Te, Dio mio, io cerco la felicità”, appare necessario entrare nella prospettiva della Parola di Dio per comprendere in che senso Dio è fonte della felicità dell’uomo.

Nell’Antico Testamento l’esperienza della “felicitas” intesa come fertilità, superamento della precarietà, abbondanza, non è quasi mai riferita alla singola persona ma alle sorti di un popolo, Israele. La felicità, in altre parole, si esperimenta quando si vive come popolo, quando si sceglie la reciprocità per raggiungere una condizione nuova, una meta e un bene comune. E difatti, per Israele la felicità è rappresentata, sia storicamente che simbolicamente, dalla terra promessa, la terra “ dove scorre latte e miele”: “lo condurrò verso una terra fertile e spaziosa dove scorre latte e miele: cioè nella regione che ora è abitata dai Cananei, dagli Ittiti, dagli Amorrei, dai Perizziti, dagli Avei e dai Gebusei”(Es 3,8).

Il raggiungimento della terra promessa, luogo di libertà, di abbondanza e di stabilità, quindi di felicità, si concretizza, per Israele, nella “unità di popolo”; non solo, ma tale raggiungimento non è frutto dello sforzo del singolo o del popolo stesso, ma è un “dono” che Dio fa a Israele in quanto popolo, che è chiamato a fidarsi di lui e a credere che quanto più difficile e impossibile potrà apparire l’impresa di raggiungere la terra promessa, essendo occupata da tanti popoli, tanto più risolutiva e indispensabile risulterà l’azione di Dio. A riguardo sono illuminanti le parole del profeta Isaia, lì dove annuncia: “ Là ci sarà una strada e si chiamerà la via santa. Sarà il Signore ad aprirla. La percorreranno tutti quelli che il Signore ha liberato. Arriveranno gioiosi al monte di Sion: sul loro volto felicità a non finire. Gioia e felicità rimarranno con loro, tristezza e pianto scompariranno”(Is 35,8-10).

Per l’Antico Testamento la felicità va cercata nella “via santa” di cui parla il profeta Isaia, ossia nella “Legge” data da Dio come segno del patto di amore e di fedeltà stabilito con il popolo di Israele.

La prospettiva del vangelo non ribalta questo visione veterotestamentaria, se è vero che le parole di Gesù legano in modo chiaro il raggiungimento della propria felicità alla ricerca di quella altrui, operando così un rivoluzione mentale rispetto alle condizioni del suo tempo storico, che vedevano nella felicità il segno di una benedizione di Dio e il riscontro di un agire morale corretto. Gesù nel suo Discorso della Montagna dichiara, paradossalmente, “beati” quelli che secondo la ragione e la logica umana sono ritenuti infelici, ossia i poveri, gli affamati, gli afflitti, i perseguitati, insomma gli ultimi della terra.

Gesù mette i suoi discepoli, e quindi i cristiani di ieri e di oggi e ogni uomo, di fronte ad una forte provocazione che ribalta i parametri di ricerca e di raggiungimento della felicità: l’uomo può fare esperienza di felicità, intesa come pienezza di vita, solo se fa della sua vita un dono agli altri, agli ultimi, ai diseredati, a coloro che soffrono e che la storia mette ai margini. E’ la logica radicale che troviamo nel vangelo di Luca:“Chi pensa a salvare la propria vita la perderà; chi invece è pronto a sacrificare la vita per me la salverà” (Lc 9,24)

In questo quadro lucano c’è un insegnamento fondamentale per il nostro tempo: chi pensa di essere felice da solo, si incammina su una strada tortuosa; chi ritiene un “bene” innanzitutto la propria felicità considerando quella degli altri solo nella misura che è utile, cade in forte errore di prospettiva perché si accorgerà, strada facendo, che vivrà solo in “compagnia delle cose” e godrà solo della “compagnia delle cose”(ricchezza, denaro, beni, potere, piaceri), sperimentando, parallelamente, la “solitudine del cuore e dell’anima” avendo pensato di essere felice e di salvare la propria vita chiudendosi nel labirinto delle sue “cose desiderate”, nell’idolatria di se stesso e delle proprie ricchezze, e dimenticando che la prospettiva suggerita dal vangelo, che è rivolta a qualsiasi uomo, va oltre arrivando ad affermare che solo ricercando la felicità degli altri è possibile trovare la propria, diversamente si perdono entrambe:“E i giusti diranno: Signore, ma quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?. Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti? Il re risponderà: In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò ad uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me” (Mt 25,37-40)

Dunque la felicità non sta nel possedere; pensare che l’aumento delle ricchezze possa produrre, quasi come automatica conseguenza, felicità, è una vera illusione:“oggi si comprende meglio – scriveva Giovanni Paolo II al n. 28 dell’ enciclica Sollicitudo rei socialis – che la pura accumulazione di beni e di servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana”

La felicità, dunque, non è nel possesso, e non è neanche nel potere né nel sapere, usati spesso come strumento per esercitare il dominio sugli altri: la felicità è invece pienezza, armonia e bellezza di vita poggiata sul “ben-essere” a livello spirituale, morale e relazionale. La felicità non è poi questione di fortuna ma dipende da noi, e si raggiunge, pur se non in modo perfetto, non “facendo” o “avendo” qualcosa, ma “essendo” in un certo modo . E in che cosa consiste questo “essere” in un certo modo”? Consiste nel riscoprire il volto dell’altro, perché – come si legge sempre nella Sollicitudo rei socialis al n. 26 – Oggi forse più che in passato, gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino, da costruire insieme, se si vuole evitare la catastrofe per tutti(…); emerge via via l’idea che il bene, al quale siamo tutti chiamati, e la felicità, a cui aspiriamo, non si possono conseguire senza lo sforzo e l’impegno di tutti, nessuno escluso, e con la conseguente rinuncia al proprio egoismo”

La felicità “propria” è complementare a quella “altrui”; convergono in “unum”, sono dunque un “bene indivisibile”, non possono separarsi e quando si separano si fa strada, paradossalmente, l’infelicità. L’alterità è invece la strada verso la felicità e la pianezza di vita: bisogna, però, avere il coraggio di “uscire da se stessi per unirsi agli altri, il coraggio – dice papa Francesco in Evangelii Gaudium – di “correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, con il suo dolore e le sue richieste”. Solo così possiamo evitare di “assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza”.