Umanizzare la medicina: chi sta male ha necessità di contatti umani per affrontare il proprio male

Umanizzare la medicina: chi sta male ha necessità di contatti umani per affrontare il proprio male

“Nelle facoltà di Medicina serve un nuovo esame per chi deve curare le persone: un esame di umanità”. Con questa citazione di Gianni Bonadonna, luminare dell’oncologia italiana, si chiude il libro di Alfredo Garofalo, “Con quelle mani. Ricordi sparsi di un chirurgo oncologo” (Emersioni editore). Il chirurgo di origine partenopea, classe 1950, dal 2007 al 2019 è stato primario all’Istituto Nazionale Tumori “Regina Elena” di Roma. Ha eseguito più di 10.000 interventi, per la quasi totalità su neoplasie del tubo digerente.
“Ad un certo punto della mia carriera dopo tanti anni di lavoro, ho sentito il bisogno fisico di scrivere le tante emozioni vissute nella mia professione – ci ha spiegato Garofalo – ; lavorando con i malati oncologici ho potuto riscontrare, sia nei chirurghi che negli oncologi medici, una generale tendenza al tecnicismo e mi è sembrato invece necessario evidenziare il lato umano della professione. C’è chi si occupa più della malattia e meno del malato. Il quale invece ha grandi bisogni per quanto riguarda l’informazione, la conoscenza e la presa di coscienza del proprio stato. Ha bisogno di persone in grado di interloquire con lui e di spiegargli cosa gli accade. In breve: chi sta male ha necessità di contatti umani per affrontare il proprio male”.

D. Sta dicendo che il decorso di una malattia oncologica cambia a seconda del rapporto umano che si stabilisce con il paziente?
R. Certo, cambia profondamente. Uno degli obiettivi dell’oncologia, sia chirurgica che medica, è la completa guarigione. Ormai la metà dei malati che arrivano alla nostra osservazione riescono a guarire. Per l’altra metà l’obiettivo diventa la qualità della vita. In questo caso ho potuto constatare che la partecipazione alla sofferenza del paziente è molto importante.

D. Esistono dati “oggettivi” in merito a questa efficacia terapeutica della vicinanza al malato?
R. È difficilmente oggettivabile, come tutto ciò che riguarda l’ambito del sentimento. Esistono sicuramente degli indicatori per quanto riguarda la qualità della vita, riferiti però a sintomi oggettivabili come il dolore. Per quanto riguarda la partecipazione e l’empatia credo siano molto difficili da misurare. Un fattore fondamentale che rimane legato alla sensibilità di ciascun medico.

D. In tema sensibilità: vede una differenza tra i medici dell’ultima generazione e quelli del passato?
R. I medici della mia generazione hanno imparato da soli ad affrontare questo tipo di problema. Ultimamente, in particolar modo negli studî oncologici, ci sono nuovi specialisti: gli psico-oncologi. Il loro ruolo è studiare il tipo di relazione da instaurare con i pazienti e somministrare un serie di questionari, raccogliere e analizzare dati. Non so quanto tale novità sia un vantaggio rispetto al passato e alle pratiche dei medici della mia generazione. Sinceramente non saprei valutarlo.

D. Circa a metà del suo libro lei racconta di Emanuele, un bambino di cinque anni, in condizioni disperate per una sospetta peritonite. Da giovane chirurgo, con gli strumenti diagnostici che aveva allora non poteva essere certo della sua diagnosi. Ma se ne assunse la responsabilità e lo operò: oggi Emanuele è un uomo forte e sano. Anche in quel caso il “fattore umano” è stato determinante: l’intuizione conta più della certezza tecnico-scientifica?
R. In medicina due più due non fa mai quattro: è una delle parti affascinanti di questo mestiere. Non c’è mai la certezza matematica degli effetti dei nostri gesti. Abbiamo dei riscontri in letteratura, nelle esperienze internazionali: poi però c’è il momento in cui occorre confrontarsi con un paziente, una persona, non con una malattia. Contano le conoscenze e lo studio, ma soprattutto è fondamentale quel che sei capace di mettere sul tavolo. Devi metterci il tuo cervello, ma anche il cuore, lo stomaco e tutto quel che hai dentro. Ad un certo punto quindi occorre tirar fuori la propria umanità, anche assumendosi qualche rischio.

D. Lei per svolgere il suo mestiere ha rinunciato a delle cose importanti, non ultima la vicinanza alla sua famiglia. La sua la definirebbe una vocazione?
R. Certamente: questo mestiere o lo si fa in un certo modo o è meglio lasciar perdere. Lo dicevo a tutti gli specializzandi che venivano nel mio reparto: devono essere pronti a sacrificarsi in tutto per tutto. È un mestiere totalizzante: non ci sono festività, giorno o notte, non c’è famiglia o figli: prima di tutto c’è la persona malata e ad essa occorre dedicarsi al 100%. Se non si è pronti a questo è meglio andare a lavorare in Banca.

D. Lei scrive: la riforma sanitaria del ’92 he creato le ASL i grandi ospedali diventavano Aziende Ospedaliere, equiparati alle fabbriche il cui prodotto finale sarebbe dovuto essere la salute degli Italiani. Difficile con queste premesse “umanizzare” la pratica ospedaliera?
R. La riforma sanitaria ha affrontato il problema dei costi e degli sprechi. La trasformazione di noi medici ospedalieri in manager ha portato sicuramente qualche vantaggio nella gestione degli ospedali. Certamente però ha comportato delle criticità: come tutte le operazioni di categorizzazione dei problemi alla fine si affrontano “macro problemi”, ma si dimenticano quelli delle persone. Se la struttura cerca risposte solo a problemi definiti a priori, non può rispondere al singolo caso specifico in modo adeguato. In medicina problemi definiti a priori non ce ne sono e quindi si è costretti a cercare delle risposte facendo appello alla propria umanità.

D. Siamo nel mezzo di una pandemia e ogni giorno si infettano migliaia di persone. Allo stesso tempo circa mille persone al giorno ricevono una nuova diagnosi di tumore maligno infiltrante (dati rapporto AIOM 2020).
R. Questo è un problema drammatico: se oggi la pandemia sta colpendo la popolazione “sana” sta decimando la popolazione malata. Il malato oncologico è spesso immunodepresso e più fragile rispetto agli altri. Non riesce a svolgere le cure, a fare la chemioterapia, vengono rimandati gli interventi chirurgici perché gli ospedali sono tutti concentrati sul Covid. Si tratta veramente di una emergenza nazionale.