Per una visione etica della salute alla luce della Dottrina sociale della Chiesa

Per una visione etica della salute alla luce della Dottrina sociale della Chiesa

Questo tempo di epidemia mondiale se da una parte sta facendo molto male seminando morti, dall’altra deve indurre a riflettere su molte cose, uscendo dalle retoriche. Una riflessione etico-teologica è necessaria,  partendo anzitutto dai termini che spesso utilizziamo, cioè  “salute” e “malattia”.

Questi  due termini sono come due vasi comunicanti e intendono esprimere la condizione in cui uno si trova a vivere. Il termine “Salus” significa salute, nel senso sanitario del termine, e significa anche salvezza, nel senso etico-spirituale e soprattutto religioso. Dunque la salute può intendersi in senso puramente biologico, e quando giunge una malattia questa ne turba o modifica – a causa di agenti interni o esterni – l’integrità biologica e fisica, ma bisogna anche andare oltre, e dire che essa è una “qualità umana”, non soltanto del corpo, ma di tutta la persona nel suo essere anima, spirito e corpo.

Chiediamoci perché il poeta satirico latino Giovanele (60 – 135ca. d.C.) scriveva “Orandum est ut sit mens sana in corpore sano”? Cosa voleva dire? Voleva asserire che la mente è sana quando lo è ( e se lo è) il corpo. Ma la mente può essere sana anche quando il corpo non lo  è pienamente. L’antico poeta latino – afferma Mosè Furlan – voleva in fondo dire che la salute della mente è, insieme a quella del corpo, dono divino, piuttosto che semplice conseguenza della salute del corpo, e che quindi la salute non è soltanto il benessere del corpo, ma anche l’equilibrio e la serenità della mente.

Così anche l’antico poeta greco Pindaro (520-442 ca a.C): perché questi  celebra nel giovane vincitore di una gara olimpica non semplicemente il vigore fisico ma anche la sua “virtù”(“aretè”). Perché la salute dell’uomo in quanto tale, non è commisurata esclusivamente alle sue prestazioni fisico-atletiche.

E’ molto importante, allora, capire che nell’orizzonte di una visione integrale e globale dell’uomo può aversi una “concezione etica ” della salute, intesa come equilibrio e mutua integrazione di tutti i fattori che costituiscono l’essere uomini: corporali, emozionali, psichici, mentali, sociali e spirituali. Mi sembra utile riferire, a riguardo, anche la definizione di salute data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “La salute è uno stato di completo benessere(“wellbeing”) fisico, mentale e sociale, e non consiste soltanto in una assenza di malattia e di infermità”.

Dall’emergenza Covid-19 possiamo trarre, allora, alcune riflessioni. La prima è  che  “le minacce alla salute del corpo – come afferma l’ Osservatorio internazionale per la Dottrina sociale della Chiesa – inducono cambiamenti negli atteggiamenti, nel modo di pensare, nei valori da perseguire. Essi mettono alla prova il sistema morale di riferimento dell’intera società. Esigono comportamenti eticamente validi, denunciano atteggiamenti egoistici, disinteressati, indifferenti, di sfruttamento. Evidenziano forme di eroismo nella comune lotta al contagio e, nello stesso tempo, forme di sciacallaggio di chi approfitta della situazione”. La seconda riflessione ci porta a comprendere l’aspetto socio-antropologico e globale della salute e della malattia( questo spiegano gli obblighi imposti  delle  pubbliche Istituzioni dello Stato)  e a prendere piena coscienza del fatto  che la salute non è solo uno dei diritti fondamentali dell’uomo, di ogni uomo senza alcuna discriminazione, ma implica anche un dovere di solidarietà sociale , proprio come in questo tempo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo, in quanto la cura della salute non rappresenta semplicemente l’esercizio discrezionale di un diritto, ma – in alcuni determinati casi                   ( malattie contagiose, mentali, ecc..) – anche un obbligo sancito dalle leggi dello stato.

La terza riflessione induce a rimodulare i concetti di sovranità e globalizzazione alla luce del Magistero della Chiesa.  Oggi  la globalizzazione investe ogni ambito della nostra vita: da quello sociale a quello culturale e religioso; da quello finanziario a quello economico;  da quello politico a quello tecnologico e della comunicazione.  E così  siamo tutti dentro un “villaggio globale”, ormai abituati ad acquistare abiti che vengono prodotti in Cina, a guardare film americani, a mangiare cibo giapponese, thailandese e via dicendo. La globalizzazione, – affermava Papa Giovanni Paolo II –  a priori non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. Essa, come ogni altro sistema, deve essere al sevizio della persona umana, della solidarietà e del bene comune.”  L’esperienza in atto del coronavirus impone di riconsiderare il concetto di globalizzazione, ridimensionandone la portata,  i suoi fasti e le sue gloriedi perfetto funzionamento tecnico-funzionale; in altre parole il covid -19  sta insegnando – come fa notare l’ Osservatorio internazionale per la Dottrina sociale della Chiesa  –   “che  non è possibile pensare che  Stati e nazioni siano superati e che tutto il mondo vive  di questo assoluto valore della “società aperta”: un unico mondo, un’unica religione, un’unica morale universale, un unico popolo mondialista, un’unica autorità mondiale. Ciò non significa negare l’importanza della collaborazione internazionale che proprio le pandemie richiedono, ma una simile collaborazione non ha nulla a che fare con strutture collettive, meccaniche, automatiche e globalmente sistemiche”.