PER UNA COMPRENSIONE DELLA BELLEZZA: Intervista a Massimo Donà della facoltà di filosofia dell’Università San Raffaele di Milano

PER UNA COMPRENSIONE DELLA BELLEZZA: Intervista a Massimo Donà della facoltà di filosofia dell’Università San Raffaele di Milano

Bello e brutto non si possono confondere con bene e male. La bellezza quindi non può essere criterio morale per Massimo Donà, filosofo e musicista, docente di Metafisica e Ontologia dell’arte presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
A Donà abbiamo chiesto una definizione di bellezza.
Il concetto di bello è uno dei più problematici di tutta la storia della filosofia occidentale. Assomiglia al concetto di tempo: nelle Confessioni Sant’Agostino parla del tempo come quella strana cosa che nella vita quotidiana so esattamente cos’è, ma nel momento in cui devo spiegare cosa sia cos’è mi mancano le parole. Così il bello: tutti pensiamo di sapere cos’è, ma nel momento in cui cerchiamo di definirlo a parole diventiamo balbuzienti. Ci rendiamo conto di non sapere affatto cos’è il bello.
Quindi definire la bellezza è impresa vana?
Una cosa è emersa chiaramente nel corso della storia della civiltà occidentale: se per secoli si è creduto di individuare i canoni della bellezza, le condizioni per cui qualcosa è bello, e nel rinascimento ad esempio si è pensato di aver individuato tali canoni; tra ottocento e novecento è cresciuta la consapevolezza che nessuno di questi criteri o canoni è in grado di rendere ragione della bellezza.
Facciamo un esempio concreto?
Pensiamo a Giotto: i suoi canoni sono profondamente diversi dai canoni pittorici del Caravaggio e questi sono abbastanza diversi da quelli utilizzati dai simbolisti dell’800. Per non parlare dei canoni che esplodono con le avanguardie del primo ’900. Quindi se un canone, come quello di Giotto, fosse vero, sarebbero falsi tutti gli altri. Pensiamo anche ai canoni della bellezza femminile: le madonne del 300 sono molto diverse da quelle di Tiziano.
Se non ci sono criteri per spiegare la bellezza allora come facciamo a parlarne?
Nessun canone può essere ragione della bellezza. La modernità si è resa conto che effettivamente la bellezza non ha a che fare con le caratteristiche specifiche di un oggetto considerato bello. La bellezza ha il suo segreto nel soggetto che contempla l’opera. A partire da Immanuel Kant è nel soggetto che occorre ricercare i criteri della bellezza. Nella Critica del giudizio Kant afferma che per dire la bellezza i concetti e le categorie non servono a nulla. Sono inutilizzabili perché la bellezza deriva dal fatto che “capita”, accade in modo misterioso, che certi oggetti si trasformino in una specie di specchi in cui l’io vede riflessa la propria infinitudine. L’io si scopre incondizionato e infinito: l’essere umano non ha una natura propria, ma fa proprie tutte le nature possibili. L’uomo può vivere come un maiale o come un santo. Può essere San Francesco o i nazisti di Auschwitz. Infine può progettare ciò che sembrava impossibile. Quale altro essere vivente può farlo? Ecco l’infinità dell’uomo, la sua incondizionatezza.
Quindi la bellezza è la percezione dell’infinito?
Intendiamoci: l’infinito va inteso come “ciò che non ha misura”. Non è né grande né piccolo. Quando vediamo in un oggetto la nostra incondizionatezza ecco che quell’oggetto ci appare bello. Nel’900 tutto ciò è emerso con l’idea di libertà dell’espressione artistica e della bellezza. Kant aveva visto in questa libertà la possibilità di capire come mai vediamo nel bello una qualche relazione tra le leggi necessarie della natura e la libertà che sentiamo dentro di noi. In un mondo fatto di leggi necessarie noi siamo liberi: attraverso la bellezza può manifestarsi la libertà che sentiamo dentro di noi.
Fabrizio De Andrè cantava: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Il bello può essere sterile?
La bellezza può essere generata da oggetti e realtà “mostruose” e a volte ributtanti: perché la bellezza non dipende da proporzioni o simmetrie e misure, ma da qualcosa che può vincere sulle sproporzioni. Anche lo squilibrio genera bellezza. Pensiamo all’urlo di Edvard Munch: inquietante, però ha una potenza dirompente, incanta per la sua intensità che prevarica sullo squilibrio delle forme. La bellezza quindi è una intensità non misurabile.
Però c’è un problema: nella classicità kalòs e agatòs, bello e buono, andavano assieme. Oggi non è più così, non c’è più relazione tra ciò che è bello esteticamente e ciò che è buono moralmente?
La bellezza non è più riconducibile alle proporzioni e alla “giusta misura”, così come credeva Platone, intimamente legata al bene e alla bontà: noi oggi sappiamo che la bellezza spesso fa a pugni con la bontà. La bellezza non si fa piegare da nessun criterio etico e morale.
Quindi il criterio morale per le scelte umane non può essere “il bello”?
Può essere un criterio, ma non morale. La morale ha a che fare con il bene e il male: ma noi sappiamo dire veramente cos’è bene e cos’è male? Sospetto che nella modernità non sia più possibile. Il bene e il male sono sempre confusi. Può esserci prevalenza di uno o dell’altro. Ma il bene e il male assoluto non sono a noi disponibili. Credere che lo siano è il peccato originale di Adamo ed Eva. La tracotanza dell’uomo che vuole ergersi a giudice del bene e del male va messa in cantina. Sappiamo solo che possiamo riconoscere il bene e il male ma non possiamo definirli in assoluto. Se da una parte invece possiamo dire esistano degli oggetti assolutamente belli, a cui “non manca nulla” per essere definiti tali, così come esistono cose assolutamente brutte, dall’alta non possiamo ergerci a giudici del bene e del male in modo assoluto.