La dimensione politica del senso all’interno di una positiva relazionalità

La dimensione politica del senso all’interno di una positiva relazionalità

In un precedente articolo dal titolo “Svuotare il nulla. La dimensione politica del nichilismo contemporaneo”, pubblicato su questo mensile, avevo sottolineato come “il destino dell’uomo sia quello di dare un senso alla sua vita”. E’ proprio di una vita autentica e non curiosa la ricerca del senso della vita. La vita, quella autentica,non curiosa è la vita vissuta ormai fuori dal paradiso terrestre, non più all’ombra dell’albero ma nel deserto della vita, di quella vita fatta di lacrime e sangue, è la vita dei più poveri, dei tanti anziani dimenticati, degli esclusi, di chi ha perso un figlio, un proprio caro, il lavoro, la propria autonomia fisica a causa di un incidente o di una grave malattia, di chi è scartato per il colore della pelle o il proprio orientamento sessuale, la vita di chi non ha diritto allo jus soli in quanto lo jus sanguinis di nazista memoria gli impedisce di diventare nostro concittadino misconoscendolo come nostro fratello, è la vita di chi, schiavizzato da tutte quelle mafie che si nutrono della vigliaccheria dei collusi e dell’apatia della nuova borghesia, non può progettare una propria vita diventando “cosa loro”.

è questa la vita autentica, reale che noi tutti affrontiamo e viviamo ogni giorno, non è  solo la vita degli altri che ci incuriosisce in quanto sembra non appartenerci, ma è la vita di cui tutti facciamo esperienza in modi, tempi e forme diverse. La vita autentica e non curiosa è quella vita in cui la “lotteria della nascita o naturale” (John Rawls) ci ha gettati, situati, costringendoci a interrogarci sul perché, sul senso di questa vita. Con la caduta della metafisica essenzialista per un’ontologia esistenzialista si ha il passaggio antropologico dell’in-sé-nella-storia, all’in-sé-dalla-storia, passaggio che prende sul serio il senso personale della vita, il senso della vita “per me”: lo stato di gettatezza del divenire personale determina e cambia il senso stesso che io do al mio mondo. Cambiando questo, gettato in nuove situazioni esistenziali, io-do-nuovo senso-alla vita. Da tutto ciò scaturisce una domanda antropologica fondamentale: l’uomo è nella società o è della società? Ovvero: l’uomo è determinato dalla società o per quanto condizionato da questa è pur sempre libero di autodeterminarsi con uno slancio di autotrascendenza etica? E’ la stessa antropologia esistenzialista a rispondere: a differenza dell’antropologia realista neoscolastica per cui le cose hanno un senso in sé, che l’uomo deve cogliere (dall’essere al dover essere), per l’antropologia esistenzialista è l’uomo che nello stato di gettatezza esistenziale da senso alle cose rendendo, attraverso il gesto etico che è proprio e solo dell’uomo, la situazione in cui si trova gettato la “sua” casa. La vita è vivere e vivere è ἦϑος (ethos): etimologicamente il termine greco ethos significa “soggiorno abituale, abitazione, il posto da vivere”; dalla stessa radice greca deriva il termine ἠθικός (ethikos) che significa “il carattere di qualcuno, distintivo” da cui la morale come “teoria del vivere”. Solo l’uomo è un soggetto etico cioè responsabile di fronte a sé stesso e agli altri, capace di scegliere e agire liberamente. Oserei dire che solo l’uomo è capace di scegliere di vivere ogni volta che trovandosi gettato nel mondo dalla legge della “lotteria Rawlsiana”, “dice si alla vita aldilà del bene e del male” (Friedrich Nietzsche), ovvero da un senso particolare, specifico alla sua vita in quanto sua: Weltanschauung (visione del mondo).

L’idea di fondo che voglio esprimere in questo articolo è che nel nostro dare senso alla vita è fondamentale la relazionalità: gli altri, infatti, co-abitano nella mia esistenza come io co-abito nella loro esistenza in quanto tutti viviamo con il nostro corpo e attraverso i nostri corpi nel mondo insieme agli altri. C’è un oltre e dell’altro che io non vedo, non ne faccio esperienza ma già visto ed esperito da altri, la cui testimonianza mi aiuta, mi orienta, a fare le mie scelte. Credo che l’esperienza storica, qualificata del già vissuto, costituisce l’oggettività del senso, il senso in sé. La traduzione nella mia vita di questa esperienza altra costituisce la soggettività del senso: dare un senso alle cose. Ogni personale esperienza è limitata rispetto alla totalità dell’esperibile, ecco perché il senso del tutto, il senso totale, pieno della nostra vita lo cogliamo nella relazione con gli altri: è questa relazionalità, intesa come intreccio cosmico di tutti i sensi, un “panteismo sensoriale” per cui il senso è in tutto e in tutti, che da una dimensione politica al senso, ovvero spinge la storia, ogni singola storia, ogni vita autentica e non curiosa in avanti, oltre, verso il novum oltre quell’“eterno ritorno dell’eguale”( Friedrich Nietzsche).

Trovare un mio senso nella relazionalità con i sensi-altri porta a superare il “naturalismo” e il “costruttivismo” aprendo la strada alla dimensione politica del senso che consiste nella irripetibilità esistenziale, nella crescita della mia vita e che si traduce, sul piano politico, nella spinta in avanti della storia grazie a quella relazione di esperienze di senso. Ci sono persone, brani musicali, poesie, opere d’arte, film, che ci aprono nuovi orizzonti, ci permettono di rileggere le nostre esperienze di vita in quanto ognuno di noi si rivede, a modo proprio, in quelle esperienze-altre narrate, cantate, ecc. Il rifiuto della dimensione politica del senso consiste nella scelta di dire no alla vita reale, autentica, alienandoci dalla stessa in un “isolazionismo esistenziale” non “interventista” vivendo in una “neutralità” che porta ad una sorta di patriottismo, nazionalismo, “sovranismo esistenziale”: prima-la-mia-vita. In un atteggiamento di “sovranismo esistenziale”, gli altri vengono visti come coloro che tolgono spazio, “invadono” la mia esistenza da cui l’atteggiamento xenofobo nei confronti di ogni altro, visto come estraneo alla mia esistenza e quindi un nemico rispetto al mio senso della vita. Ma il chiudersi nel proprio mondo di senso, significa ascoltare sempre e solo l’eco della propria voce: ciò è “la Stasi”, la fine della storia, l’apatia dell’io sul noi.