Gli effetti della secolarizzazione sulle festività religiose

Gli effetti della secolarizzazione sulle festività religiose

E’ più difficile, per la cultura laica e secolare, dare senso alla Pasqua: una festa a cui il nostro sentire contemporaneo non riesce più a conferire una collocazione e significatività come accade invece con il Natale. Lo sostiene Paolo Costa, filosofo, ricercatore presso il Centro di studi religiosi della Fondazione Bruno Kessler di Trento e autore di un recente saggio sulla secolarizzazione “La città post-secolare” (Queriniana editore). Nel saggio Costa parte da un’accezione positiva della secolarizzazione: un processo che ha portato idee, tradizioni, ricchezze culturali da una dimensione solo religiosa a quella laica e comune. Se qualcosa si secolarizza non vuol dire solo che la tradizione religiosa perde il suo significato originario e il suo valore, ma che si trasforma in qualcosa di più accessibile a tutti e senza necessariamente chiedere una adesione di fede.

A Costa abbiamo chiesto di spiegarci questa nuova idea sulla secolarizzazione guardando alla Pasqua 2022 appena trascorsa
“Nella comprensione positiva del concetto di secolarizzazione è possibile notare come in molte culture contemporanee particolarmente secolarizzate, in UK per esempio, ci si domandi perché alcune feste religiose debbano ancora essere celebrate. Si tratta in genere di persone laiche, secolarizzate appunto, a cui le feste religiose non dicono più nulla e si chiedono appunto il senso del loro fermarsi a celebrare qualcosa di insignificante. Magari andando a cercare le origini pagane delle festività cristiane in modo da sentirsi più titolati anche loro a parteciparvi. Se si interpreta la secolarizzazione in maniera classica come il declino, il ritrarsi della religione allora si penserà che la Pasqua lentamente terminerà del tutto di avere significatività religiosa per le persone. Il nuovo senso che noi attribuiamo alla secolarizzazione è ambivalente, meno lineare. Non si dice più “o la religione vince o si afferma il suo contrario”. Ragionando in termini diversi si vede che da una parte la modernità ha acquisito sempre più importanza a discapito della religione. Dall’altra però è cambiato il contesto: emergono nuove forme di spiritualità e pare che la secolarizzazione è cresciuta, ma senza occupare tutto lo spazio che era della religione. Si sono aperti invece nuovi spazi di esplorazione spirituale, diversa, ibrida, con modelli intermedi.

Come tutto questo processo emerge nei tempi di festa?
Nel caso del significato delle festività lo si vede proprio bene. Tutte le persone sono impegnate a riscoprire, indipendentemente dalle loro fedi e credenze, il significato di questi momenti che sono centrali in ogni società. Ci si ferma, non si lavora, si passano giorni “diversi dal solito”. Parte però anche una richiesta seria di senso e credo che in parte questa ricerca dipenda dalla nuova formula con cui le persone interpretano la propria identità. Non più qualcosa di fisso, stabile ed una volta per tutte uguale a se stesso. L’identità è divenuto un concetto più fluido e in progressione.

Cambia anche il senso che si conferisce ai vari tipi di festa?
“Ci sono alcune festività della nostra tradizione, come il Natale, che hanno una risonanza maggiore, una ricerca comune e cooperativa. Il Natale è “più facile” da spiegare. E’ la festa della comunità e della famiglia e con ciò riesce ad essere più trasversale. Non solo nel senso banale del consumismo, ma proprio perché le persone riescono ad attribuire a quei momenti un significato universale come la ricerca del senso negli affetti familiari. Si vede che su questi temi le persone possono confrontarsi. La figura di Gesù bambino può parlare anche ad un laico. La cultura secolare quindi riesce meglio a dare un senso a queste festività”.

E la Pasqua invece?
“E’ più difficile. I temi sono più ostici e divisivi. C’è il tema della sofferenza che viene redenta attraverso un episodio miracoloso di difficile interpretazione come la resurrezione. Cosa significa che la morte e il dolore abbia o meno l’ultima parola? E’ più ostico quindi trovare un significato trasversale”.

Quindi a suo avviso non ci sono elementi della Pasqua che sono “secolarizzabili”?
“In realtà credo che alcuni temi possono transitare: quello del digiuno preparatorio ad esempio. Nella quaresima la cultura laica riesce a riflettere sul significato della rinuncia. E’ un tema che tocca le persone che riescono a intercettare un significato. Altro elemento è la crescita d’importanza del momento del sabato. La passione e resurrezione sono fondamentali per un cristiano, ma anche l’incertezza e l’attesa sulla questione cruciale: la morte e il dolore deve avere o no l’ultima parola sulle nostre vite? La cultura laica è altrettanto incerta così come lo furono i testimoni della passione di Cristo al tempo. Un terzo elemento infine è la primavera: una stagione speciale e incerta. Mario Rigoni Stern nel suo libro “Stagioni” descrive così la primavera: “arriva all’improvviso, non piano come l’autunno. E’ come la vita: ti spiazza proprio quando credi di aver chiuso, tirato i remi in barca. C’ è sempre un dolore, un amore, una paura o una gioia che ti becca di sorpresa”. Rigoni Stern scriveva queste cose quando era molto anziano, andava nel bosco a camminare, ma il fisico non lo sosteneva più e conclude: “allora capisco il mio limite. Conoscerlo è fondamentale per un uomo: il limite appare sempre in primavera. La primavera, non l’autunno, è la stagione per morire. Ha un profumo definito, fresco e vitale. Quel profumo ti promette che la vita continua anche se te ne vai. E questo è meraviglioso”.

La Pasqua quindi diventa accettazione del ciclo della vita?
“Quando assume il senso del passaggio, della constatazione di non essere indispensabili per la vita, diventa una lezione che riguarda tutti e può servire a meditare nella breve pausa che ci ritagliamo in questi giorni.

Invece delle certezze della “Chiesa trionfante” che vede nella resurrezione e nella vita eterna la propria vittoria è rimasto poco?
“Si, ben poco. Si vede bene in Rigoni Stern questa forza che ci coglie di sorpresa. La dimensione della forza e dell’esultanza entra in risonanza con questo aspetto: la natura rinasce in primavera. Ma in forma impersonale. Noi moderni ci facciamo carico del senso dell’esistenza: ci sentiamo in dovere di dare senso alla nostra vita. Il trionfo della natura per un attimo ci toglie questa responsabilità gigantesca di trascinare la vita verso il senso, la felicità o la pienezza. Qualcosa rimane nei riti pasquali di questo “senso di leggerezza” legato alla rinascita”.

C’è anche il tema della libertà, sopratutto nella Pasqua ebraica, come liberazione dalla schiavitù, come passaggio di una comunità unita che si oppone alla condizione di ingiustizia. Di questo è rimasto qualcosa nelle nostre pasque secolarizzate?
“Non molto. La secolarizzazione contemporanea tende a privatizzare le riflessioni spirituali. La libertà è un punto più difficile, non è ordinario e quotidiano, ma legato ad una dimensione rivoluzionaria dell’esistenza. La Pasqua ebraica ha al suo interno delle potenzialità semantiche sanamente politiche che per noi non significano più nulla.

Concludendo: in ogni caso la Pasqua non è riuscita ad essere monopolizzata dall’elemento consumistico come il Natale?
“No, perché è più “difficile”, chiede di pensare, di fare delle scelte, e di farle spesso in una dimensione comunitaria e non singolare o privatamente familiare”