Etica: La coscienza, “Araldo di Dio”, luogo di “dialogo interno dell’anima ”, tra verità e libertà / 2

Etica: La coscienza, “Araldo di Dio”, luogo di “dialogo interno dell’anima ”, tra verità e libertà / 2

Una “ri-comprensione” della coscienza che voglia dirsi cristiana non può sicuramente trascurare quanto la Parola di Dio indica per camminare sui passi del vangelo. Anche se i Vangeli non posseggono un termine specifico che indichi la coscienza, utilizzano tuttavia due sinonimi: “cuore” e “spirito”. San Paolo, poi, ci offre una visione sistematica del concetto di coscienza utilizzando il termine “syneidesis”, termine mutuato dalla filosofia stoica, ove stava ad indicare la coscienza del male, il senso del rimorso causato da un’azione cattiva. Ma l’apostolo Paolo va oltre il dato filosofico. Egli fa spesso ricorso alla coscienza per sottolineare l’importanza di un principio interiore come fondamento dell’agire umano, in opposizione alla norma solo esterna della Legge.
Se per i farisei la coscienza si riduceva ad un’ipocrita “purificazione dell’esterno del bicchiere”, mentre il loro essere era pieno di rapina ed intemperanza, Gesù, al contrario, nella sua predicazione insiste sul fatto che non è quello che entra nell’uomo a contaminarlo ma quello che esce dal profondo del suo essere (Cf Mt 15,11). Gesù, insomma, invita l’uomo a guardarsi dentro per discernere nel cuore il bene dal male, ecco perché diceva alle folle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto fare?”(Lc 12,54-57).
Sulla linea del Nuovo Testamento si muove anche il Concilio Vaticano II, che al n. 16 della Gaudium et spes afferma: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato . La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo”. Stando a questo efficace e splendido insegnamento del Vaticano II, la coscienza per noi cristiani deve essere percepita e ricompresa come “luogo del dialogo”, “luogo di bellezza”, proprio perché è dentro questo luogo che ognuno ritrova se stesso, rilegge la propria storia, la vita, gli errori, le fragilità, le gioie e i dolori, il proprio rapporto con gli altri e con Dio. La coscienza ci fà percepire la bellezza del rimanere soli con noi stessi, come davanti ad un altare dove l’interlocutore principale è Dio amore, misericordia, accoglienza, che ci invita ad ascoltarlo nella libertà, prima di porre in essere una azione. Ed ecco perché San Bonaventura poteva scrivere: “La coscienza è come l’araldo di Dio e il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da se stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama l’editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza di obbligare”.
In un tempo come il nostro caratterizzato da urla, frastuono, sospetto, violenza, finzione, corruzione, lamentazioni che alimentano una sorta di “coscienza collettiva” al negativo ove bene e male diventano interscambiabili, il cristiano deve saper riscoprire e rileggere la sua coscienza – direbbe Platone nel suo dialogo Teeteto – in chiave di “dialogo interno dell’anima con se stessa” o, direbbe S. Agostino, come luogo di ricerca della dimensione veritativa: “Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità”(De vera religione, 39).
Purtroppo nella post modernità anche i cristiani, spesso, interpretano il senso della loro coscienza non in termini di “ dialogica morale interiore”, ma esclusivamente conoscitiva e applicativa: la coscienza si è trasformata in un rapporto fra il nostro essere e l’essere delle cose. A ciò ha contribuito sicuramente uno dei più grandi filosofi del nostro novecento, Heidegger (1889-1976), il quale ha cancellato la nozione di coscienza, tant’è che al declino di essa ha progressivamente corrisposto un’accentuazione del ruolo sociale e politico delle “masse” e della “gente” nel cui anonimato si è finito per giustificare tutto: giudizi, comportamenti, scelte, discriminazioni, razzismo, aggressioni, sull’onda di una coscienza dominante collettiva che non solo stabilisce buoni e cattivi, onesti e disonesti, giusto e sbagliato, bene e male, ma che divide in innocentisti e colpevolisti, in essere superiori ed inferiori, in intellettuali ed ignoranti, con il conseguente offuscamento di quella coscienza personale che i padri conciliari hanno definito “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo”.
Nasce, a riguardo, la grossa questione del rapporto fra coscienza personale e coscienza collettiva, questione che rappresenta, dal punto di vista psico-sociologico, un aspetto di importante discernimento nel quadro della ricomprensione e formazione della coscienza, ed atteso che veniamo da una storia che, dall’800 in poi, ha rimarcato fortemente la nozione di “coscienza di classe”, nozione che nel marxismo è stata la leva ideologica su cui si è fondata la tesi della “lotta di classe”. Nella “ricomprensione” della nostra coscienza cristiana non possiamo sicuramente ignorare la riflessione teologico-morale, che ci aiuta a renderla più umana dandoci alcune coordinate dentro le quali interpretarla: la rettitudine e l’opzione fondamentale. Ognuno di noi ha il diritto e il dovere di obbedire prioritariamente alla coscienza personale, ma a condizione che essa sia correttamente informata, nel senso che sia consapevole della realtà delle cose e delle ragioni e delle conseguenze dell’agire, e che sia guidata dal solo bisogno di conoscere la verità nella libertà e senza costrizioni.
La fede, la rivelazione biblica, la dottrina e il Magistero della Chiesa illuminano, senza dubbio, con i loro insegnamenti la nostra coscienza, ma nelle scelte e nell’agire morale c’è sempre un “primato della coscienza” che ci rimanda, però, alla nostra opzione fondamentale, ossia alla nostra relazione personale e comunionale con Dio amore e misericordia. Se tale relazione è vera, retta ed autentica, la coscienza, al di là di leggi scritte che provengono dall’esterno, non potrà che uniformarsi alla Voce di Dio che risuona dentro di essa per indicargli la strada da seguire e le scelte da fare nella logica del vangelo. Ma di primato della coscienza parleremo in modo più approfondito nel prossimo numero.