“Con gli occhi miei, ascolta.” Il ruolo della scuola nei casi di violenza assistita/2

“Con gli occhi miei, ascolta.” Il ruolo della scuola nei casi di violenza assistita/2

Quando viene nominato il tema della violenza assistita, risulta diffuso un senso di disorientamento e inadeguatezza. Insegnanti, allenatori ed educatori riportano di sentirsi molto in difficoltà trovandosi immersi, in modo imprevedibile, nella storia di un bambino vittima di violenza assistita, in quanto non sanno che parole usare o che comportamenti attuare.

Di primo impatto è naturale pensare allo stato di disagio di questi bambini, ma anche gli adulti che li circondano sperimentano in realtà delle emozioni altrettanto importanti quando vengono a contatto con queste storie. L’emozione più diffusa sembra essere un senso di compatimento e pietà verso la difficile situazione di questi bambini, ma ciò sembrerebbe essere poco utile per poterli aiutare. Fondamentale è mettersi nei panni di questi bambini attraverso un sano senso di empatia, ma risulta importante non cadere in uno stato di pena che non aiuterebbe il bambino ad uscire dal ruolo di vittima che ha sperimentato finora.

La violenza assistita è definita il “dolore degli impotenti”, ma per poterne uscire i bambini hanno bisogno di sperimentare un senso di fiducia verso di sé, vedendo che qualcuno crede nelle loro capacità e risorse. Fare insieme a questi bambini qualcosa alla loro portata gli permette di sentirti visti, validati ed apprezzati in una modalità di sicurezza nel contesto in cui sono inseriti, rispondendo quindi gradualmente al loro principale bisogno, ossia quello di cura e protezione che non avevano mai avuto occasione di sperimentare.

Un’altra emozione spesso provata da chi sta con questi giovani è la paura. L’adulto stesso non sapendo come muoversi, ha paura di questi bambini e delle loro storie. Questa può essere una situazione negativa in quanto, come spiega Bowlby nella Teoria dell’Attaccamento, un adulto spaventato rischia di diventare un adulto spaventante, attuando delle modalità contro-difensive che, seppur non volute, potrebbero essere dannose nella relazione tra adulto e bambino.

Un bambino potrà sperimentare un senso sano di protezione e sicurezza nel momento in cui si possa trovare con un adulto sicuro e protettivo che a sua volta può esserlo nel momento in cui egli stesso si senta in un contesto di sicurezza.

Cosa fare quindi? Spesso la strategia più utile è la connessione emotiva, ossia esprimere ciò che si sente ammettendo di aver del timore o dell’incertezza proprio come ce l’ha il bambino. Il bambino non ha bisogno di sentirsi fragile, bensì sentire che il sistema che si sta occupando di lui è un sistema tranquillo e competente dove esiste la possibilità di confronto costruttivo con adulti che hanno una buona consapevolezza emotiva. Questi bambini hanno bisogno quindi di adulti in cui non vedano ulteriore fragilità di fronte alla conoscenza della loro storia passata, bensì sentano un senso di compattezza e solidità, cioè un adulto sicuro che sappia comportarsi adeguatamente davanti ad una situazione, sapendola gestire con calma autorevole.

Per concludere è importante sottolineare che le competenze degli adulti non vengono valutate da questi bambini solo all’interno della loro relazione diretta, bensì anche quando la figura di riferimento si rapporta con gli altri bambini e il contesto circostante. I bambini vittime di violenza assistita hanno un’abilità elevata nel cogliere tutti i segnali dell’ambiente circostante, in quanto essi hanno un’ipersensibilità a tutto ciò che non è verbale ed una grandissima competenza nella metacomunicazione (modo di camminare, muoversi, parlare, etc.) che fino ad oggi ha permesso loro di prevedere e gestire un possibile attacco del genitore. Fondamentale è quindi, come nuove figure protettive, garantire loro un aspetto di coerenza tra cosa diciamo e cosa facciamo, ossia un equilibrio che dia l’idea di avere davanti un adulto stabile di cui piano piano poter fidarsi e a cui poter affidarsi.