Etica: La “ri-comprensione” della coscienza al tempo del web/1

Etica: La “ri-comprensione” della coscienza al tempo del web/1

Una realtà che nel nostro tempo non manca di essere mai invocata nelle relazioni umane è la coscienza. Non esistono articolazioni della società civile, ambiti sociali, politici, culturali, educativi, religiosi, mediatici in cui non si faccia appello alla coscienza. Educare le coscienze, sensibilizzare le coscienze, formare le coscienze sono gli appelli che vengono da tutte le parti e che, spesso, hanno come destinatari i giovani.
Il rischio che si corre, con questi appelli, è quello di considerare la coscienza una sorta di “scatola” dentro la quale depositare norme e divieti, che, nei fatti, nessuno segue o è disponibile a seguire.
Ecco perché oggi, nel tempo del web, appare quanto mai fondamentale e necessaria una “ri-comprensione” e una riaffermazione del primato della coscienza, specie nel quadro della vita morale cristiana, sia per evitare di ridurre la coscienza ad una semplice dimensione psicologica della persona che condiziona nel bene e nel male il suo agire, sia per evitare di trasformarla in un giudizio morale pratico, vale a dire in una applicazione della norma etica al caso particolare concreto.
Effettueremo pertanto un viaggio intorno alla coscienza, per coglierne tutte le dimensioni e gli aspetti più profondi, con la consapevolezza che in tutti noi c’è proprio uno “spazio di libertà”: è questo è la nostra coscienza, luogo cosi intimo dentro il quale ogni giorno si aprono tensioni fra ciò che siamo veramente e ciò che vorremmo essere, fra ciò che vogliamo e ciò che dobbiamo fare.
Non è superfluo, anzitutto, domandarsi, che cos’è la coscienza, come agisce e come reagisce.
Il termine coscienza, che deriva dal latino “cum-scientia”, cioè con scienza, conoscenza, è una facoltà spirituale tipica dell’uomo ed è presente in tutti, anche se non sempre come coscienza vera e retta. Nella nostra società, nei rapporti umani, nel vissuto dei cristiani e delle comunità ecclesiali non manca di sentire espressioni comuni del tipo: “avere un peso sulla coscienza”, “avere la coscienza a posto”, prendere coscienza di”, “agire secondo coscienza”, “mettersi una mano sulla coscienza”. Si tratta di espressioni che alludono ad un concetto di coscienza intensa come un “senso” o una “voce” interiore che rende la persona consapevole delle ragioni e delle conseguenze delle sue scelte. Se i nostri sensi ci guidano e ci danno la misura della nostra collocazione nel mondo fisico, allo stesso modo la coscienza ci guida e ci dà la misura della nostra collocazione e del nostro agire nel mondo morale.
La coscienza, al tempo del web, sembra certamente vivere un forte smarrimento di senso. Basta fare un viaggio in treno o in aereo o anche solo soffermarsi ad osservare la realtà, per vedere come il mondo è cambiato e per prendere atto di una vera e propria “mutazione antropologica”. Ognuno chiuso nel suo guscio, assorbito nel suo mondo; auricolari e sguardo fisso sullo smartphone, non ci si accorge neanche di chi ci sta accanto. Tutti connessi; tutti in chat; tutti in contatto, ma forse in realtà siamo tutti un po’ più soli e indifferenti all’altro.
La nostra coscienza è oggi continuamente sottoposta ad input, pressioni e stimoli; sempre di corsa, sempre a star dietro all’ultima mail, all’ultimo sms. In un mondo che vuole inesorabilmente la sua indipendenza, mai siamo stati così dipendenti. Tutti sanno dove siamo e quello che stiamo facendo al di là di ogni possibile privacy; siamo vittime di un mondo che ci coinvolge, non consentendoci alcuna possibilità di uscita.
Le grandi catene di consumo hanno portato ad un appiattimento dei desideri e delle vocazioni verso individui uniformati senza identità. Si inseguano stili e modelli di vita livellanti. E così, perfino la corporeità diventa un vero e proprio dilemma di identità: il corpo ora conteso ora rifiutato, ora attraversato dal bisogno di costruirsi una identità sessuale diventa “luogo di ricerca di significato”, spazio identitario insignificante, specie nell’età adolescenziale.
Non c’è dubbio che occorre riscoprire il valore della coscienza come il volto interiore dell’uomo, se è vero – come afferma Siracide 13,25, che “il cuore dell’uomo si riflette nel volto”. Oggi, sul palcoscenico delle giornate, sfilano, quasi sempre, volti stanchi, abbuiati, tristi, poiché i problemi sono tanti, la vita è irta di difficoltà, il lavoro stanca, i rapporti sociali sono complessi, tesi e conflittuali. Quotidianamente succede di imbattersi nel disoccupato in cerca di lavoro, nell’anziano che vive nella solitudine, nel bambino privo di affetto che gioca sul selciato della strada, nel povero senza pane e senza casa, nel barbone e nell’emarginato o nell’immigrato che smercia fazzoletti, immaginette e oggetti vari.
Quanti volti! Ognuno con la propria storia, problemi, fatiche, ansie e speranze. Sono volti che ci incrociano e provocano i nostri volti, cioè le nostre coscienze. E allora due domande. La prima: la nostra coscienza è una maschera dietro cui, come in windows, apriamo mille files e non sappiamo quale di questi vada per primo approfondito, affrontato, chiuso, eliminato o ancora non utilizzato? Oppure, seconda domanda, la coscienza, è l’incarnazione del nostro sentimento d’identità?
Se dovessimo far tesoro solo della grande lezione di Pirandello, non ci resterebbe che concludere che la coscienza esiste se non come maschera che, più o meno consapevolmente, ciascun individuo sceglie di indossare; e quando l’immagine che ciascuno ha di se stesso non coincide con quella che gli altri hanno di lui, l’inganno cade, e l’esistenza umana si mostra in tutta la sua miseria, sospesa nell’inconciliabilità tra vita e forma, tra essere e divenire. Emerge così tutto il malessere dell’uomo moderno condannato alla solitudine e all’incomprensione con l’altro, e destinato a rassegnarsi ad essere “Uno, nessuno e centomila”, cercando di trarre beneficio dalla maschera che gli altri gli forgiano addosso (vedi Rosario Chiàrchiaro, in La patente), oppure rifiutando la propria identità socialmente connotata e avviandosi in solitudine verso l’inevitabile follia ( vedi l’Enrico IV).
Questo è Pirandello, ma per la coscienza dei credenti il maestro non può essere lui, perché la Rivelazione biblica ci porta invece su altri piani che sicuramente possano dare alla coscienza umana una identità di bellezza: “Guardate al Signore e i vostri volti diventeranno raggianti”. Nella Bibbia pur non trovandosi un termine specifico per indicare la coscienza, esiste un concetto di coscienza legato al valore del “cuore” come sede dei pensieri, dei desideri, delle emozioni e del giudizio morale, quindi della coscienza. Il credente cristiano sa che Dio ha scritto la sua legge “nel cuore dell’uomo”(Ger 31,29-34; Ez 14,1-3 e 36,26); sa che Dio “scruta il cuore” e la mente, e loda e biasima gli atti che lui compie(Gb 27,6). La ri-comprensione della nostra coscienza di cristiani va allora definita non a partire da una legge ma da un “cuore” capace di ascoltare i suggerimenti dello Spirito per convertirsi(Sl 50,12). Da un cuore nuovo nasce una coscienza nuova che sa discernere il suo operato in rapporto alla sequela di Cristo, il Maestro, e sa fare della sua vita un dono di bene. Nel dono si incomincia a sentire il respiro della propria identità, della propria coscienza e il respiro dell’altro. “Come il viandante che, nel dare il suo mantello, esprime il sacrificio nel senso di farsi sacro per l’altro”.